L'attentato al latitante Nicola Abbruzzese, le intercettazioni del Ros e le confessioni del pentito Falbo
Arcangelo Badolati
I feroci cassanesi. Decisi a cancellare dalla scena sibartita gli "zingari" rivali. La strategia di annientamento, cominciata nell'ottobre del 2002 con l'assassinio di Fioravante Abbruzzese e Eduardo Pepe, "reggenti" del clan nomade riconducibile agli Abbruzzese, prevedeva altre clamorose azioni omicide da condurre pure a Cosenza. Azioni di cui ha parlato al pm antimafia Vincenzo Luberto, Antonio Forastefano, inteso come "il diavolo", capo dell'omonimo gruppo mafioso, diventato collaboratore di giustizia per sfuggire ai rigori del 41 bis.
Come nei bui anni '80 pure la città capoluogo stava per essere risucchiata in una guerra senza quartiere tra bande rivali. Una guerra che doveva riesplodere con un attentato spettacolare condotto a Cassano contro Nicola Abbruzzese, inteso come "Semiasse", per poi propagarsi fino a Cosenza. Questo inquietante scenario, confermato dal boss pentito, già emergeva dall'inchiesta "Omnia". I carabinieri del Ros avevano appreso infatti in "diretta" dei folli piani di battaglia che il gruppo guidato dal padrino sibarita stava preparando. Gli "azionisti" avrebbero dovuto agire sia nella Sibaritide che nell'area urbana dove alcuni "rivali" avevano trovato ospitalità e potevano contare su solide alleanze. La conclusione del maxiprocesso "Lauro" – istruito dalla Dda di Catanzaro contro la criminalità nomade – e la scarcerazione di Abbruzzese avevano mandato in fibrillazione i cassanesi inducendoli – secondo le tesi della magistratura inquirente e le dichiarazioni del pentito – a preparare una offensiva militare. Il testo di una intercettazione è illuminante: «Secondo me stiamo uniti, altrimenti qualcuno di noi che esce poco poco con la testa di fuori gli tagliano le orecchie…». Domenico Falbo (non ancora pentito) ignaro d'essere ascoltato affermava, durante un altro colloquio: «Che me ne frega di rubare, guardiamoci prima la pelle tutti quanti, facciamo qualcosa per salvare la nostra pelle, quella della nostra famiglia e quella dei ragazzi che prima si sono fidati di noi…». Il clima, insomma, era questo. Il clan pensava perciò a preparare un attacco preventivo. «Due o tre devono cadere» dicono alcuni "azionisti" «tra cui i figli di banana». Il riferimento è agli stretti congiunti di Antonio Abbruzzese, che vivono a Cosenza. Il progetto, più complessivamente, contemplava – come avrebbe confermato Forastefano – l'eliminazione di molti più "nemici". «Sono una decina in tutto», si lasciavano scappare degli indagati intercettati, «gli obiettivi da colpire». Il primo della lista era Nicola Abbruzzese, appena tornato in libertà. Non sembrava però facile beccarlo. Spiega Domenico Falbo non appena decide di collaborare con i giudici: «Non usciva quasi mai di casa, poi quando usciva andava sempre a Cosenza ed era difficile prenderlo. Io ho proposto di fare un attentato alla casa mettendo una bombola di gas e della benzina, per farlo saltare di notte». La proposta non trovò – per fortuna – il consenso del resto della cosca. Antonio Forastefano, infatti, non era d'accordo. «Tonino – chiarisce il pentito – non era favorevole perchè con "Semiasse" abitavano i familiari. Siamo rimasti che dovevano continuare a osservarlo per vedere se andava a Cosenza e quale strada faceva…». Forastefano confermerà in effetti al pm Luberto d'aver scartato il folle progetto.
Lo scontro sibarita rischiava, comunque, di trasferirsi pure nel capoluogo. Uccidere Abbruzzese mentre si muoveva in auto, tuttavia, appariva ancora più complicato. L'uomo, infatti, si spostava a bordo di una velocissima Golf 2700 a benzina. L'iniziale piano alternativo alla "bomba" per farlo fuori, registrato dalle microspie del Ros, era stato compiutamente illustrato da due sodali durante una conversazione. Eccolo: «Si vede ogni mattina con un binocolo che passa da là, una volta che noi sappiamo – dice un interlocutore all'altro – che in una settimana ci passa da là, noi ci appostiamo da mercoledì a dopodomani e dopo ci diamo dentro con il fucile e pò, pò, pò…Facciamo un tiro al bersaglio». Questa ipotesi d'azione viene però scartata e si passa a un'altra opzione: l'inseguimento in auto. Proprio per questo – rivela ancora una volta il collaboratore Falbo – il gruppo Forastefano si procura un'autovettura dalle stesse prestazioni di quelle della futura vittima. Grazie ai contatti stabiliti con i napoletani, la consorteria riesce a far arrivare in Calabria un'Audi di grossa cilindrata rubata nel capoluogo partenopeo. La potente berlina viene nascosta in un magazzino di Villapiana in attesa del momento propizio. Momento che, però, non arriva. La consumazione dell'agguato contemplava l'eventuale utilizzo di tutte le armi nella disponibilità della consorteria. Il pentito le ha elencate: «Bazooka, kalashnikov, plastico con la miccia, bombe a mano». Roba da "Apocalypse now". Dell'arsenale ha parlato diffusamente anche Antonio Forastefano. E, prima di lui, l'ex reggente del clan, Salvatore Lione.
In sintesi
Come nei bui anni '80 pure la città capoluogo stava per essere risucchiata in una guerra senza quartiere tra bande rivali. Una guerra che doveva riesplodere con un attentato spettacolare condotto a Cassano contro Nicola Abbruzzese, inteso come "Semiasse", per poi propagarsi fino a Cosenza. Questo inquietante scenario, confermato dal boss pentito Antonio Forastefano, già emergeva dall'inchiesta "Omnia". I carabinieri del Ros avevano appreso infatti in "diretta" dei folli piani di battaglia che il gruppo guidato dal padrino sibarita stava preparando. Gli "azionisti" avrebbero dovuto agire sia nella Sibaritide che nell'area urbana dove alcuni "rivali" avevano trovato ospitalità.
http://www.gazzettadelsud.it/NotiziaArchivio.aspx?art=131779&Edizione=8&A=20110923
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